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Narciso

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                                           N A R C I S O

 

 

   Quando si parla di qualcosa con la piena determinazione di formularne il che cosa, si finisce con l’inventare una nuova categoria.

   Così le cronache che da qualche tempo hanno preso a parlare di narcisismo nel tentativo di connotare taluni aspetti della nostra civiltà, hanno incasellato un mito, lontanissimo nel tempo e pieno di risonanze, costringendolo in un arido schema.

   Narciso, tuttavia, è una condizione umana non nuova, ma il significato dato in questo momento alla cosa, la induce a presentarsi quale una nuova dimensione esistenziale, quasi un dover-essere imperioso del mondo moderno. (In ogni chiarificazione, infatti, del fenomeno sociale, è anche la possibilità stessa della sua divulgazione, per il fatto che la chiarificazione, in quanto nuova e giustificata coscienza, si impone quale modello e dover-essere nella società).

    Sennonché, il pensiero dell’uomo, soprattutto l’occidentale, ha una sua natura coprente, proprio in virtù della sua inguaribile passione di affibbiare nomi a cose multiformi: procedimento riduttivo che in parte occulta l’intoccabile essenza delle cose, il loro essere in sé.

   Il nome, il concetto, la norma, sono oscuramenti dell’essere più vero e finiscono col porre inequivocabilmente l’alternativa tra essere e apparire, e il dualismo che ne consegue è l’inesorabile condanna del pensiero.

   Ma se così stanno le cose, non è lecito sostenere – solo perché in tal senso orienta la cultura oggi – che l’amore di sé, il Narciso, altro non è che amore del proprio corpo, di un nostro lustro esteriore, una vanità che voglia fare epoca e conquistare il plauso di un pubblico quanto mai vasto.

   Le cose starebbero così solo a patto che essere e apparire fossero uno; ma, come dicevo, la natura oscurante del pensiero ha già fatalmente generato un dualismo – sia gnoseologico che etico – che non possiamo eludere né disconoscere e così, al di là del corpo non può che esservi un’anima come postulazione della differenza tra essere e apparire.  Proprio perché non è questo apparire, l’anima rimane segreta nel più profondo, essenza che la norma ha castigato alla negazione e che conosce quest’unico divieto.

   Narciso è una seduzione, un adescamento di noi a noi stessi. È l’immagine dell’ermafrodito che è in noi, dacché in noi è questa duplicità.

   Narciso è l’anima bella che non conosce prescrizione né regola; e l’espansione del fenomeno sociale che si innesca propagandando l’immagine del moderno Narciso, è quanto mai distante dalla realtà, quanto mai falsa e banale. Il moderno Narciso è tutto corpo, è fieramente bello ed ha cura soltanto del suo aspetto mondano, tutto proiettato fuori di sé, ma non in quella che è la sua verità, quanto piuttosto secondo la moda che nel consumismo imperante dilaga. Il moderno Narciso è perciò, rispetto all’autentico, un fraintendimento: un Narciso che si umilia e diventa perfettamente assimilato alla massa propagandata, che non si svincola e non produce se stesso, rimane quale mero numero, apparentemente privo di identità, un Narciso che non si fa e lascia che altri lo facciano secondo precise regole, è palesemente un’impostura, un artificio, una falsità.

   Se Narciso si risveglia in noi e chiede udienza, la sua immagine, totalmente individuale, non è per essere propagandata, non si modella su niente che sia al di fuori di sé, non segue regola alcuna, essendo egli solamente se stesso. Non modello da imitare poiché è l’assoluta sregolata individualità, esso è il non-portare-traccia, l’assolutamente libero e svincolato e, tuttavia, negato alla realtà in quanto oppositore della norma e della materia.

   La pubblicità mortifica e castiga, dunque, ancora una volta il Narciso delle profondità del nostro essere e lo obbliga a rimanere nascosto e a non mostrarsi. Non riuscendo a manifestare l’intimo se stesso, il vero Narciso rimane perciò chiuso in noi, perpetuando la dualità essere-apparire. La voglia del Narciso, dell’autentico Narciso riposto – la riconquista della propria libertà – è di emergere al di là dell’altro, privo di norma, privo di castigo, come un dio fulgido, bello e giovane, lo sguardo trasparente, e che non ha occhi se non per il proprio se stesso.

   Narciso, infatti, del possibile e della regola, ma dell’impossibile sormontante ogni umano divenire, adergendosi sulle vicende che spazio e tempo costituiscono in successione incalzante e che il pensiero racchiude in un’arida regola o in una solitaria idea.        

   L’impossibile rimane in se stesso, solamente suo, e isolato dal mondo, poiché il divenire e il farsi oggettivo, come suo intervento nel mondo, sarebbe l’identità di essere e apparire, un Narciso ugualmente distante o meglio ugualmente presso se stesso e l’altro.

   Da qui nasce il bisogno del Narciso di raccontarsi per essere finalmente se stesso, in una parola per essere. Narciso muore giorno per giorno in tutti i divieti e le prescrizioni, dietro alle regole grammaticali e del comportamento, muore di logica e di etica e di religione e di stupidità convenzionali. Narciso lotta e muore, risorge e lotta, e sempre e tutte le volte che risorge e che lotta, tutte le volte, immancabilmente, muore. Ma Narciso vuole la vita, ama la vita, ama il bello che la vita è, cioè di esserci, e non sopporta il castigo cui lo relega lo spirito meschino, stringato e lineare che ha preso il sopravvento nell’uomo. Né finché è vita, è possibile altrimenti – egli lo sente – ed è questo il castigo, l’onta da patire, questa impossibilità che l’esistenza è nei suoi confronti. Perciò la vita lo innamora e gli dice: -Se vuoi vivere ed essere parte di me, devi un po’ morire. -  E così Narciso, di volta in volta muore per poter vivere, muore ad ogni “no!”, ad ogni divieto o regola o idea che egli possa pensare e pensandola sottostarvi castigato, ritagliato crudelmente in se stesso.

   Strana vicissitudine è questa del povero Narciso, costretto a morire per le lusinghe della vita! Mi sono innamorata di lui, del mio povero Narciso casto e indifeso; egli è l’immagine mia vicina e imprendibile, perché, come il riflesso di ciò che è corporeo, negato alla realtà. Se Narciso si ritrae dalla fonte, l’altro Narciso subito dilegua. Ed è questo lo specchio: che io possa guardare dentro di me. E tutte le volte che io guardo, io nego la vita che è in me e seguo ed amo Narciso, il mio Narciso profondo che mi porta altrove; e la vita, intanto, scorre fuori di me ed io muoio nel Narciso che mi chiama dalla fonte e mi invita a raggiungerlo.

   Questo è il suo adescamento: il Narciso desideroso di vivere mi rapisce a sé, all’inconsistenza e alla morte. L’altro Narciso, colui che vive, colui che sta al di là della fonte, ha le sue ricette, le sue prescrizioni, le sue arti documentarie e pedisseque entro cui ingabbiarsi come una figurina in negativo che si disegni nel sovrapporsi di un immenso articolato intaglio. E così Narciso è destinato a non incontrare interamente se stesso; in quanto tale, egli avrà sempre un doppio, un’immagine speculare di se stesso, irraggiungibile, verso cui è volto.

   Il tentativo di raggiungerla è mortale: Narciso dal buio profondo dell’essere chiede di venire al mondo: egli chiama, grida, urla, sconvolge l’oscurità e le catene, e risuonano cupi i suoi lamenti in noi. Egli soffre la prigione e la prigione è perché l’altro Narciso possa possedere il mondo. Narciso sarebbe tutto se potesse l’uno e l’altro ottenere, se stesso e il mondo, se stesso e l’esistenza senza che questa significhi ceppi per lui.

   L’altro Narciso, quello del mondo, talvolta per la grande arsura di questo deserto terrestre, va alla fonte. Lo reca un bisogno smanioso, una inquietudine da assetato e, venuto alla fonte, beve alle profondità da cui, tremolante, affiora il bel fantasma malinconico.

   Egli ne ammira la purezza, la dolcezza frantumata nell’onda lieve: una malinconia mite, come da razza illustre, antica e orgogliosa, si disegna nel suo sguardo. La finezza dei suoi tratti è scolpita nell’alabastro delicato, ed egli è, nello specchio d’acqua, un dio notturno e lunare che attenda l’ora della vita e il giorno. Ed è, questo incontro, il narrarsi di Narciso: Narciso che vuole emergere e raccontarsi e partecipare dell’essere e della vita, e l’altro Narciso, il mondano, che gli si fa incontro innamorato e lo segue sulla strada che gli è opposta, e muore un po’per incontrare il giovane effeminato e dolce che pratica incantesimi.

   Sì, il Narciso del mondo deve un po’ morire per il mondo, se vuole che l’altro Narciso viva.

   Questo incontro, questo immaginario punto sospeso oltre l’esistente, è in tutto simile o forse non è altro che il mondo della letteratura come anticipazione di ciò che più veramente è, ovvero, nel senso più lato, dell’arte. Poiché anche l’arte è un doloroso cammino verso la morte, perdita del mondo e nullificazione, essendo amore di quell’essere, il profondo-Narciso, che esprime in sé l’impossibilità dell’esistente.

 

 

 

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